I fantasmi di Masseria Navarino

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Nell’agro di Molfetta, al confine con Bisceglie e Corato, sorge un’antica masseria fortificata, nota come Masseria Navarino o Torre di Navarrino. Il casale e gli ampi terreni circostanti furono a metà del Settecento il luogo di un triste fatto di cronaca, che destò non poco interesse nella popolazione locale e che ha finito per legare il luogo ad alcune storie di fantasmi.

Il vasto complesso comprende un’ampia abitazione su tre livelli, piano terra, primo piano e sotterranei, che, difesa da alcune garitte e torri angolari, domina il fondo nella sua parte più elevata. Nei pressi dell’abitazione sorge anche la chiesetta, dedicata a San Francesco da Paola, che presenta ancora tracce di affreschi dal gusto squisitamente barocco. A completare il complesso troviamo una colombaia con due torrini e alcuni palmenti, cui si aggiungono numerose e ampie cisterne che, sfruttando le pendenze naturali del terreno, permettevano di raccogliere ingenti volumi di acqua.

Il casale fu per alcuni secoli proprietà della famiglia Gadaleta, che iniziò la costruzione degli edifici ancora esistenti. In particolare, il marito di Costanza Gadaleta, tale Ferrando Briones, spagnolo originario della Navarra, avrebbe dato il nome alla contrada, appunto “di Navarrino”. La famiglia, cui appartenevano anche i Baroni di Binetto, acquistò numerosi terreni in zona a partire dalla metà del Cinquecento.

Ma la storia che vogliamo ricordare, risale a circa due secoli dopo. La notte del 26 marzo 1746, l’abate Gregorio Gadaleta, che abitava il casale, sentì bussare alla porta, dove tre ignoti si erano accalcati. Questi, presentandosi come pellegrini, chiesero di essere ammessi all’interno, a causa del temporale notturno. L’abate li accolse, salvo poi essere immobilizzato e derubato di ogni suo bene, per un valore di oltre 2000 ducati. In totale, i malviventi risultarono essere nove.

L’abate denunciò il tutto alla Regia Udienza di Trani, che dopo alcuni mesi e la consegna spontanea di alcuni esponenti della banda, riuscì a sgominare tutti i malviventi. Dei nove, vennero condannati gli esecutori materiali, in particolare Marco Cariati, Angelo Arcieri e Carmine Piturro. Il 27 gennaio 1747 si stabilì che i colpevoli dovessero essere condannati a morte e che l’esecuzione avvenisse nel luogo del delitto.

Si tratta di una soluzione molto in uso all’epoca, introdotta sotto il dominio spagnolo, per arrecare maggior soddisfazione ai danneggiati e dare un segnale potente alla popolazione. Il 4 luglio 1749 si svolse l’esecuzione. Come forca furono scelti tre possenti alberi di ulivo e, dopo l’esecuzione, i corpi furono squartata e appesi ad altrettanti alberi del fondo. Dopodiché, vennero portati a Giovinazzo, a Bisceglie e a Barletta. A Molfetta, infine, la testa del Cariati venne appesa in pubblico monito all’entrata della fabbrica di San Domenico, sede dell’Inquisizione.

A perenne ricordo del fatto fu apposta una iscrizione, in cui fino al 1998 (anno in cui venne trafugata) si leggeva “Il 4 luglio 1749 re Carlo III di Borbone fece in loco Alberini impiccare tre ladroni: M. Arceri, A. Cariati, C. Piturro, a tre alberi di ulivo”. La contrada venne da quel momento denominata “Macchia delle Forche”, tanto fu il clamore dell’esecuzione.

L’intera vicenda ha quindi in tempi più recenti attirato presso la masseria appassionati del mistero e del paranormale, alcuni dei quali hanno affermato di aver rilevato rumori strani e inspiegabili nei sotterranei dell’antico edificio.

Giuseppe Mennea

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