Ankara vede “crescenti minacce alla sicurezza” da parte di Grecia e Siria (e prepara la “difesa”)

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Immagine realizzata da Carlo Coppola

Nel complesso scacchiere del Mediterraneo orientale e del Medio Oriente, la Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan torna al centro dell’attenzione internazionale. Il leader turco denuncia “crescenti minacce alla sicurezza” da più fronti — Siria e Grecia in primis — alimentando i timori che Ankara stia preparando il terreno per nuovi interventi militari. Si tratta davvero di una risposta a pericoli reali o di una strategia mirata a rafforzare il consenso interno?

Il conflitto siriano, mai realmente risolto, rappresenta ancora una delle principali preoccupazioni per Ankara. Erdogan, intervenendo pubblicamente nel gennaio 2025, ha riaffermato il sostegno alla stabilità della Siria, opponendosi a qualunque forma di destabilizzazione. Ma la retorica ufficiale cela una realtà ben più articolata.

La presenza delle milizie curde del YPG e del PKK lungo il confine meridionale è vista da Ankara come una minaccia diretta alla sicurezza nazionale. La creazione di un comitato parlamentare dedicato al contrasto di questi gruppi, e le minacce esplicite di Erdogan — “I curdi depongano le armi o li schiacceremo” — mostrano una chiara volontà politica di mantenere alta la pressione, anche con la forza. L’obiettivo non è solo la sicurezza: si tratta anche di rafforzare il controllo turco in territori chiave del nord della Siria, creando una fascia di sicurezza oltreconfine.

A ovest, le relazioni con la Grecia continuano a peggiorare, trascinate da dispute storiche e da nuove rivalità energetiche. Al centro del conflitto: la delimitazione delle zone economiche esclusive nel mar Egeo e nel Mediterraneo orientale, dove si trovano riserve strategiche di gas naturale. Erdogan ha parlato chiaro: “La pazienza ha un limite. Faremo ciò che è necessario, verremo di notte”. Un messaggio diretto a Atene, ma anche agli alleati occidentali.

La militarizzazione delle isole di Lesbo e Samo da parte greca, con l’impiego di mezzi blindati statunitensi, è vista come una provocazione. Erdogan, dal canto suo, considera queste isole “occupate” e non riconosce vincoli all’azione turca. Le dichiarazioni, riportate anche dall’ISPI, delineano un clima sempre più teso, con il rischio concreto di scontri, anche accidentali, tra due membri della NATO.

Che si tratti della Siria o della Grecia, la narrazione delle “minacce alla sicurezza” sembra seguire un copione ben definito. La simultanea escalation su due fronti potrebbe infatti servire ad Ankara per raggiungere obiettivi interni: consolidare il consenso in un momento di difficoltà economiche e alimentare un nazionalismo funzionale alla sopravvivenza politica di Erdogan.

La mobilitazione dell’opinione pubblica attorno a questioni di sicurezza esterna, unite alla retorica aggressiva, potrebbero essere il preludio a interventi militari mirati, limitati ma politicamente efficaci. Un’escalation “controllata”, che mantenga alta la tensione senza però sfociare in un conflitto aperto.

Resta però il nodo cruciale: fino a che punto Erdogan è disposto a spingersi? Un conflitto nel nord della Siria rischierebbe di riaccendere focolai già instabili e attirare le critiche di Mosca, Washington e Teheran. Sul fronte greco, invece, un’escalation avrebbe conseguenze imprevedibili per l’intera Alleanza Atlantica, spaccando la coesione interna della NATO e destabilizzando l’Europa sud-orientale.

La comunità internazionale osserva. Se da un lato Erdogan potrebbe utilizzare la pressione militare come strumento di negoziazione diplomatica, dall’altro non è da escludere che le parole possano trasformarsi in azione. Molto dipenderà dalla capacità degli attori regionali e globali di contenere le ambizioni turche, evitando un nuovo, pericoloso scontro nel cuore del Mediterraneo.

Nel frattempo, la Turchia si muove come una potenza regionale in cerca di spazio, pronta a forzare la mano per ridefinire gli equilibri geopolitici a suo favore.

Carlo Coppola

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