Nel XIII secolo, ben prima che l’Italia divenisse una nazione unita con una lingua standardizzata, una rivoluzione letteraria silenziosa covava in Sicilia. Sotto il regno illuminato di Federico II di Svevia, imperatore del Sacro Romano Impero e Re di Sicilia, fiorì alla sua corte reale di Palermo la Scuola Siciliana. Questo circolo di poeti, abbandonando il latino e il francese, scelse di esprimersi in una raffinata lingua siciliana, creando liriche d’amore che avrebbero ispirato generazioni future. La loro lingua era melodiosa, dignitosa e ricca di sfumature espressive.
Tra il 1230 e il 1266, questi poeti produssero oltre trecento versi di poesia cortese, elevando il siciliano a lingua di alta arte. A Giacomo da Lentini, figura di spicco di questa scuola, viene persino attribuita l’invenzione di quella celebre forma poetica che conosciamo come il sonetto. Inevitabilmente, l’influenza di questi poeti siciliani si diffuse verso nord.
Ed ecco entrare in scena Dante Alighieri. Agli inizi del XIV secolo, Dante raccolse la fiaccola e proseguì il cammino, costruendo sulle fondamenta gettate dai poeti siciliani. Studiò la loro scuola, attingendo dalle loro opere e dai loro stili per le sue creazioni. Li citò persino nei suoi studi, in particolare nel “De Vulgari Eloquentia”.
All’epoca, non esisteva un paese chiamato “Italia”, né una lingua chiamata “italiano”. La penisola era un mosaico di regni, ducati e repubbliche separate. Ogni regione possedeva la propria lingua, tanto diversa dalle altre quanto il francese lo è dallo spagnolo. Un contadino di Napoli parlava napoletano, un mercante di Venezia parlava veneziano, un falegname in Sicilia parlava siciliano, e difficilmente si sarebbero compresi.
Facciamo un salto in avanti fino al 1861. L’Italia si unifica e diviene un solo regno, fondendo per la prima volta tutti quegli stati disparati in una sola nazione. Ma unificare la terra era una cosa; unificare la lingua rappresentava un’altra, grande sfida. Il nuovo paese necessitava di una lingua comune per il governo, l’istruzione e la costruzione di un’identità nazionale.
La scelta cadde sul toscano, che divenne il modello per quella che oggi chiamiamo “italiano standard”. Insegnato nelle scuole, utilizzato dallo stato e diffuso attraverso la radio e la televisione.
Perché proprio il toscano? Non perché fosse la lingua più parlata (non lo era), ma perché portava con sé un peso culturale significativo: era la lingua di Dante, Petrarca, Machiavelli e altre icone letterarie. E sebbene Dante sia spesso definito il “padre dell’italiano”, in ultima analisi egli costruì sulle fondamenta gettate da quei poeti siciliani medievali alla corte di Federico II in Sicilia.
Ma ecco la sorpresa: le lingue regionali non sono mai scomparse. Da Milano a Palermo, la gente continua a passare dall'”italiano standard” al proprio dialetto locale ogni giorno.
Così, mentre l'”italiano standard” è una lingua relativamente moderna… la sua storia affonda le radici nella poesia siciliana medievale, si è affinata nella prosa toscana e continua a vivere in ogni cadenza locale, da Venezia a Napoli e oltre. Che bella storia, davvero.
Antonio Calisi