
Giovanni Gasparro. San Biagio, Aquila (wikipedia)
La richiesta di condanna a un anno e quattro mesi della Procura di Bari nei confronti del pittore Giovanni Gasparro riaccende un interrogativo: dove finisce la libertà artistica e dove inizia l’istigazione all’odio?
Artista “di maniera” in senso nobile, recupera chiaroscuro caravaggesco e pathos barocco, compone scene corali in luce radente e restituisce i corpi con realismo vigoroso. Le pennellate sono stratificate, i rossi intensi e i contrasti ricordano i maestri seicenteschi, compresi i pugliesi da Carlo Rosa ai Fracanzano e a Finoglio. Ogni quadro è narrazione: martirii, santi, estasi e supplizi come pagine di un martirologio divengono temi disturbanti per chi preferisce la moda dell’arte piacevole, compresa una certa Chiesa che evita polemiche con sangue dei martiri e con tutto ciò che induce al sommovimento interiore.
Al centro della sua poetica c’è il corpo nel supplizio, nel martirio e nella gloria, temi che attraversano la tradizione cristiana. Come nel Martirologio Romano, il dolore è concreto: pelle lacerata, muscoli in tensione, sangue che cola – e moncherini che ricordano le carcasse dei mercati palermitani. Ma Gasparro attraversa e supera la Vucciria: l’horror trova la sua epifania salvifica nelle tecniche luministiche barocche, la luce, a sua volta, si principio ristoratore che trasfigura il dramma della carne in epos. Non è un gusto del macabro fine a sé stesso, ma una sfida alla passività dell’arte plastica contemporanea per restituire alla Fede la sua dimensione eroica.
La condanna di Gasparro per aver rappresentato temi storici o religiosi rischia, però, di divenire un precedente grave. L’arte ha sempre mostrato la violenza e il martirio: dai Trionfi della Morte alle crocifissioni rinascimentali, dai drammi seicenteschi alle carnezzerie di corpi santi e profani. L’artista barese si pone in questa continuità iconografica, riaffermando il compito di scuotere le coscienze. La censura, soprattutto ideologica, riduce invece l’arte a decorazione, perché lo fa? Quali sono i suoi tratti e le motivazioni ideologiche? Condannare Gasparro è come chiare ad un giudizio postumo Michelangelo o Bernini?
L’autorità giudiziaria afferma di non contestare il diritto di dipingere scene violente, di non voler violare la libertà artistica, ma il contesto della diffusione. Alcune immagini, accompagnate da commenti, oltrepasserebbero l’ambito artistico assumendo toni propagandistici a danno di alcune religioni, di talune sensibilità. Per l’accusa non è censura, ma tutela dall’istigazione all’odio religioso. Il problema è, invece, che alcune religioni hanno odiato e odiano, hanno massacrato e massacrano nei modi più inverecondi e fantasiosi, e qualcun altro vuole negare questi atteggiamenti per non creare imbarazzo; nel tentativo che non chiamando le cose con il loro nome l’orrore venga differito o che non esista.
Il caso Gasparro interroga sul rapporto fra arte, limiti e critica sociale. Una società libera deve tollerare ogni espressione artistica, anche disturbante, o esistono limiti quando l’arte veicola messaggi provocatori? La risposta non è semplice: il confine tra arte e propaganda, provocazione e istigazione, resta una delle questioni più complesse del nostro tempo. Ma chiunque sia Cavaradossi, Scarpia è sempre in agguato!
Qualunque sia l’esito finale del processo, una cosa è certa: l’opera di Giovanni Gasparro, con la sua forza figurativa e il richiamo ai drammi umani di alcuni, scopre che il re è nudo, ed incide nel dibattito contemporaneo su libertà espressiva, responsabilità sociale dell’intellettuale e potere delle immagini.
Carlo Coppola









