La tassa sul celibato

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Nel corso dei secoli si è assistito all’istituzione di tasse particolari e, in alcuni casi, bizzarre; si pensi alla tassa sull’urina ideata dall’imperatore romano Vespasiano, il cui regno si estese dal 69 al 79 d.C., o, ancora, alle numerose imposte formulate in Europa con lo sviluppo del sistema feudale: i contadini, infatti, erano costretti a versare dazi per attraversare i ponti, far abbeverare i loro animali, tagliare la legna o l’erba e molto altro.

In alcuni casi, tuttavia, lo stato entrò in modo più pervasivo negli affari privati degli individui, ad esempio con l’obbligo, dettato dallo zar di Russia Pietro il Grande (1672-1725) agli ufficiali e funzionari di corte, di tagliarsi la barba, benché rappresentasse un aspetto cardine della cultura ortodossa.
Analogamente in Italia venne imposta dal regime fascista la tassa sul celibato, istituita dal Regio Decreto 19
 dicembre 1926, n. 2132, la cui applicazione era regolata dal Regio Decreto 13 febbraio 1927, n. 124. Si trattava di un tributo limitato ai cittadini italiani di sesso maschile non sposati, al fine di accrescere il numero di matrimoni e, conseguentemente, il tasso di natalità nel paese, il quale necessitava, secondo l’ideologia fascista, di una popolazione numerosa per costituire un esercito numeroso per raggiungere gli obiettivi di grandezza nazionale.
All’epoca furono colpiti oltre 3 milioni di italiani di età compresa fra i 25 ed i 65 anni, fatta
eccezione per gli invalidi di guerra, i sacerdoti e religiosi che avessero pronunciato il voto di castità, coloro ai quali era vietato di sposarsi, gli stranieri residenti in Italia ed, infine, i militari costretti a ferme speciali per cui l’obbligo di matrimonio vedeva delle limitazioni. Tutti coloro che non appartenevano alle suddette categorie esenti dovevano versare un contributo fisso che oscillava dalle 70 lire, fra i 25 e 35 anni, alle 100 lire fino a 50 anni, alle 50 lire per chi avesse sino a 65 anni. Nel 1934 e nel 1937 la tassa subì un aumento con un’aliquota aggiuntiva, differente a seconda del reddito. L’importo raccolto veniva devoluto all’Opera Nazionale Maternità e Infanzia.
Malgrado la politica di sostegno alla famiglia e l’entrata in vigore della tassa sul celibato, l’Italia vide calare il suo tasso di nascite, ma al contempo vi fu un aumento della popolazione, che arrivò 44,94 milioni grazie alle maggiori aspettative di vita. Fu il Governo Badoglio ad abolire nel luglio 1943 l’imposta. Negli anni successivi, però, non sono mancate delle proposte di natura similare, volte a incrementare la natalità, che promuovessero, innanzitutto, le unioni nuziali e, quindi, le famiglie più numerose.
Le origini di tali provvedimenti possono essere rintracciate, a seguito di un attento studio delle fonti storiografiche antiche, nei provvedimenti di Augusto (27 a.C.-14 d.C.) in linea con la sua politica moralizzatrice: egli, infatti, introdusse un’imposta per i senatori che non avessero ancora preso moglie, finalizzata a preservare l’istituzione della famiglia, cui si aggiunsero delle politiche atte ad incentivare la procreazione.
Maria Elide Lovero
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