Il problema della nomofobia nella società contemporanea

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L’incidente stradale avvenuto nella zona di Casal Palocco, a Roma, lo scorso 14 giugno in cui ha perso la vita il piccolo Manuel ha colpito l’intera Penisola. Il drammatico episodio accaduto nella Capitale è stato caratterizzato dal fatto che la Smart con all’interno la vittima, sua madre e la sua sorellina è stata travolta da una Lamborghini con all’interno un gruppo di youtuber che stavano concludendo una “challenge” che consisteva nel restare 50 ore di fila all’interno della vettura. La società del XXI secolo è chiaramente dipendente dalla tecnologia, in modo particolare dagli smartphone.

La tragedia avvenuta nel Lazio ci porta a parlare di un argomento delicato e complesso: si tratta della nomofobia. Questo neologismo proviene dall’anglosassone “NoMoPhoBia” che sta per “No Mobile Phone phoBia”, e indica la paura di non avere con sé il cellulare colpendo una grande parte della popolazione mondiale. Detta anche “Sindrome da Disconnessione”, si espande di pari passo allo sviluppo tecnologico; tra le caratteristiche comportamentali che si registrano nei soggetti ci sono la sensazione di panico, la paura di perdere contatti con amici e conoscenti, di non essere connessi con il resto del mondo, di non potersi informare su ciò che gli altri pubblicano sui social e di non essere rintracciati. L’utente dipendente dallo smartphone monitora costantemente lo schermo del cellulare per controllare l’arrivo di nuove chiamate o nuovi messaggi, se la batteria è carica o no. Egli soffre di ansia ed è nervoso in situazioni in cui deve fare a meno del cellulare; addirittura alcuni individui usufruiscono dei dispositivi anche in luoghi dove sono vietati come le chiese o le scuole. C’è dunque una paura di disconnettersi dall’ambiente rappresentato dalla rete digitale.

I giovani tra i 18 e i 25 anni sono i soggetti più colpiti dalla nomofobia. I loro modelli di vita sono gli sportivi e i cantanti che molte volte mettono in mostra le loro vetture e i loro gioielli costosi: nei ragazzi emerge la voglia di emulazione. Pertanto, sono convinti che la vita reale sia come un videogioco e ciò che conta unicamente è l’aspetto fisico. Oggi i media digitali compongono un ruolo centrale nel creare l’identità dei ragazzi. I social network sono il luogo dove si costruisce l’autostima dell’individuo grazie al numero di amici che si ha su Facebook o di “mi piace” sui post.

Discutere dei social richiede un’ampia parentesi che è meglio evitare. Tuttavia, occorre dover puntualizzare come i media digitali non mettono assieme solo aspetti negativi. Grazie a essi, i ragazzi sviluppano e mantengono le amicizie creando canali di comunicazione liberi dove possono esprimere i loro bisogni. Il legame costruito nei social network non sostituisce quello reale, anzi lo aumenta. In un certo senso, la relazione mediata si prolunga oltre la persona e ne estende i tempi. Se usati per bene, sono straordinarie opportunità di condivisione e conoscenza, se usati male sono dannosi: ecco perché bisogna prestare molta attenzione. I giovani devono sapere che i commenti che scrivono permangono all’interno del web e possono offendere le persone: i soggetti fragili che vengono insultati possono anche pensare al suicidio.

Ciò che serve è una sorta di “scuola di media digitali”. Gli adolescenti non sono consapevoli dei rischi dei media oppure fanno finta di conoscerli. Essi devono imparare a conoscere e a saper utilizzare i media, vanno “educati” in tutto e per tutto. Il gruppo di youtuber protagonisti di questa sfida social (che non nomino per non dare ulteriore notorietà a questi ragazzi) si sono trasformati in fenomeni mediatici a dir poco assurdi. Da premettere che hanno avuto la sensibilità di interrompere la loro attività, ma i loro video sono ancora presenti su YouTube. Ci sarà qualcuno che adotterà provvedimenti? Serve immediatamente una legge per evitare nuove vittime come Manuel. La situazione è fuori controllo.

I social causano una progressiva e graduale disconnessione tra la vita reale e quella virtuale, fanno credere ai ragazzi di essere invincibili non facendoli conoscere il senso del rischio. Fanno vedere le cose che già pensano grazie agli algoritmi che alterano un pensiero unico che toglie spazio al pensiero critico e al dubbio che possono avere nei riguardi delle reali conseguenze dei loro gesti. Invece che creare situazioni di disagio, vanno utilizzati sì per condividere pensieri come consentono i vari Instagram e Twitter ma nel limite della sicurezza e senza commettere azioni che possano mettere noi e gli altri in pericolo di vita. Questo è chiaramente un mondo grande dove bisogna fare informarsi costantemente, fare attenzione e utilizzare un linguaggio appropriato dato che si perde l’empatia non essendoci una conversazione “faccia a faccia” ma si parla tramite uno schermo.

Il distacco dalla vita reale è molto ampio, c’è bisogno di andare nelle scuole e parlare con gli adolescenti prima che sia troppo tardi. Gli insegnanti e i genitori svolgono il ruolo di educatori e non vanno assolutamente lasciati soli nell’affrontare questo compito difficile. In passato, controllare i propri figli voleva dire vederli giocare per strada o al campo sportivo, oggi non è più così. Anzi, a partire dalla prima infanzia, i media si propongono come alternativa valida di socializzazione alla scuola e alla famiglia. Molte azioni come il cyberbullismo sono generate dal fatto che la vittima non viene picchiata fisicamente, non ci si rende conto come la ferita viene provocata a livello psicologico e mentale. I ragazzi vanno ascoltati, sono critici nei riguardi dell’ambiente in cui vivono, li mettono a disagio.

Paolo Gabriel Fasano

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