A smorzare l’appiattimento delle olimpiadi inclusive e fortemente pagane del 2024 ci pensa il trentasettenne serbo Novak Djokovic dopo aver ottenuto l’oro contro il talentuoso ventunenne spagnolo Carlos Alcaraz.
Un rivoluzionario segno della croce del tennista serbo, un Te Deum politicam ente non corretto, per quell’oro che mancava nella bacheca straordinaria di un genio puro della racchetta. Per sé e per il suo Paese, quella Serbia bistrattata dalla storia, sempre dentro, ma sempre ai margini, impopolare e avversata dai tempi della guerra in Jugoslavia, guardata con sospetto per la sua sintonia plurisecolare con la Russia oggi non di moda.
Djokovic è il genio rozzo slavo, dentro e fuori, caparbio e testardo, controcorrente sui vaccini anti Covid e contestatore sugli stili di alimentazione imposti negli ultimi anni per andare a braccetto con le politiche green, mai piegato dal politicamente corretto, dalla necessità dei potenti di mostrare il campione come un proprio trofeo che asseconda le loro scelte con finalità esclusivamente economiche, un talento e una forza di volontà inarrestabili.
10 Australian Open, 3 Roland Garros, 7 Wimbledon,4 US Open, 7 ATP Finals, 428 settimane da record come numero uno al mondo e infine l’oro olimpico a Parigi nel 2024.
“Cosa c’è di speciale in questo oro? Soprattutto vincere per la Serbia, come lo sarebbe stato per tutti i miei colleghi quando rappresentano il proprio Paese. Era la mia quinta Olimpiade, tre volte su quattro ero andato in semifinale e non ero mai riuscito a superare quel turno. Quando ho giocato contro Musetti ci ho pensato: superiamo la semifinale. E infatti oggi non mi sono sentito nervoso, la medaglia era certa, chiaramente tenevo all’oro. Ho dato tutto per il mio primo oro olimpico, ho sacrificato anche la famiglia” le parole di Nole dopo la vittoria dell’oro.
Novak Djokovic ha vinto e rivinto tutto ciò che un tennista possa desiderare di vincere, forse per grazia divina, forse proprio per questo si è fatto il segno della croce.
Francesco Saverio Masellis