Il 7 ottobre 1991 moriva l’autrice Natalia Ginzburg

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Natalia e Leone Ginzburg.

Trentatré anni fa, il 7 ottobre del 1991 ci lasciava a Roma la scrittrice e traduttrice Natalia Ginzburg, colonna della letteratura italiana contemporanea e soprattutto una tra le prime autrici a essere riconosciuta in quanto tale a livello antologico italiano.
Nacque nel 1916 a Palermo come Natalia Levi da una famiglia di origine ebraica, che tuttavia si trasferì a Torino dove l’autrice trascorse l’infanzia. Trapiantato come lei nel capoluogo piemontese fu Leone Ginzburg che sposò nel 1938 e di cui iniziò a usare il cognome, un intellettuale e docente universitario nato nel territorio odierno ucraino, che sarà torturato e ucciso dagli occupanti della capitale poco prima della liberazione.
Fu dopo la morte del marito e il secondo matrimonio negli anni Cinquanta che ebbe inizio la collaborazione della Ginzburg con la casa editrice Einaudi nonché il periodo più proficuo per la sua letteratura.
L’opera più celebre di Levi Ginzburg è senza dubbio “Lessico famigliare”, nonché la più personale e intima dell’autrice che ambiva da sempre a scrivere. Diversamente dalle sue opere precedenti in cui mascherava i personaggi reali con quelli di finzione, qui si tratta di un diario di famiglia. Infatti, dichiarò che durante la stesura del racconto “Lui e io”, nell’estate del ’62, sentì “il desiderio di raccontare la realtà senza mescolare nessun elemento fantastico.” Come nel breve romanzo “Le voci della sera” scritto nel 1961, anche qui la figura della madre gioca un ruolo centrale. “Lessico famigliare” si aggiudicò il Premio Strega nel 1963.
Ginzburg figurò in un contesto sociale e culturale come quello del secondo dopoguerra caratterizzato da personalità laiche e antifasciste, con cui strinse amicizia, come per esempio con il collega Cesare Pavese. Anche grande amica della Morante, fu tra le prime a dichiarare “capolavoro” un’opera come “La Storia”. Entrambe non gradivano l’appellativo “scrittrice”, preferivano piuttosto “scrittore”, una scelta che non era indicatore di disprezzo né tanto meno di vergogna per l’appartenenza al proprio sesso, ma di rivendicazione di parità. 

Sofia Fasano

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